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14 Novembre 2025 - 12:58
C’è una frase che Ernesto Bellino ripete più volte, durante il lungo esame concesso in Corte d’Assise dove è imputato per l'omicidio della moglie: “Le ho voluto troppo bene". Lo dice quando il pubblico ministero Francesco Lucadello gli chiede come avesse trascorso l’ultima notte insieme a Maria Orlando, la donna che aveva sposato più di cinquant’anni prima e che avrebbe ucciso poche ore dopo. Lo ripete quando gli si domanda perché avesse ritirato una querela contro di lei, presentata dieci anni prima.
E di nuovo, quando la domanda riguarda il motivo per cui avesse tollerato, per così tanto tempo, quella che descriveva come una vita d’inferno, condizionata dalla gelosia ossessiva di lei e dalle incompatibilità di carattere: “Ho voluto troppo bene a mia moglie, ho preferito fare il carcerato”.
“Volevo solo una vita normale, come tutti” si giustifica l’ex operaio in pensione, una vita trascorsa tra la Sicilia, dove aveva conosciuto e sposato Maria, e Beinette, dov’era tornato insieme a lei e all’unico figlio, Antonio.
Su cosa ci fosse di “non normale” nel rapporto tra i genitori è stato proprio lui a esprimersi, nella precedente udienza: “Litigavano spesso per svariati motivi, un po’ la gelosia di mamma, un po’ la pignoleria del papà, un po’ anche perché i miei figli non frequentavano più i nonni”.
Una relazione duratura ma piena di incomprensioni: tant’è che Bellino in un’occasione aveva perfino denunciato la moglie, sostenendo che lei gli avesse “messo le mani alla gola”. Una tragica anticipazione di quanto sarebbe avvenuto a parte invertite, la mattina del 28 giugno dello scorso anno.
A scatenare il raptus, sostiene l’uxoricida reo confesso, sarebbe stata una banale frase pronunciata dalla moglie: “Tu non hai niente, la vera malata sono io”. “Non ho capito più niente, - racconta, tra i singhiozzi - pensavo solo alle parole che mi aveva detto nonostante avessi cercato di aiutarla e di vivere con lei: ma lei voleva una vita diversa, quella che non ha mai avuto”.
Da tempo, a scavare un solco tra marito e moglie ci si era messa la malattia: quella di lei, un Alzheimer diagnosticato tre anni prima, in fase di peggioramento. Quella di lui, una depressione cronica che lo aveva portato a svariati ricoveri e a un tentativo di suicidio, in casa del figlio, ingerendo prima un flacone di psicofarmaci e poi la candeggina.
Anche il giorno del delitto Bellino si sentiva male. “Ero molto ansioso e privo di concentrazione” racconta. La sera prima era tornato a casa dalla spesa, molto spossato: Antonio gli aveva suggerito di chiedere aiuto alla badante, la prossima volta. La stessa sera il 75enne aveva preparato la colazione del mattino dopo, con i biscotti per Maria, quelli “che lei amava di più”. Dopo una notte difficile si era steso in soggiorno, chiedendo alla moglie di portargli “le gocce per l’ansia”. Lei, dice lui, lo aveva ignorato: “Era chiusa in un mutismo totale, faceva avanti e indietro imperterrita”. Poi gli aveva detto quella frase, soltanto quello. “Quello che mi ha scatenato - conferma l’anziano - è stata principalmente la frase che ho sentito: in quel periodo avevo difficoltà anche ad uscire fuori e incontrare la gente, anche la badante lo aveva capito”.
Maria, spinta a terra, non aveva nemmeno tentato di reagire: “Non ho avuto neanche un ripensamento, avrei potuto lasciarla libera e invece ho continuato fino alla fine”. L’esame dell’imputato, davanti all’avvocato di parte civile Enrico Gaveglio e al difensore Fabrizio Di Vito, proseguirà il 26 novembre.
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