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22 Agosto 2025 - 10:05
Nell’ultimo numero abbiamo raccontato – attraverso la parabola di Ozzy Osbourne e dei Black Sabbath – come gli anni ‘70 rappresentassero una rottura col decennio precedente. Oggi, a 60 anni dalla sua uscita, una canzone come Like A Rolling Stone di Bob Dylan ci offre la chiave per comprendere quei “favolosi anni ‘60”, un’epoca che ha segnato il ‘900.
Mentre l’Europa affrontava la ricostruzione dalle macerie post belliche e il trauma della decolonizzazione, i nuovi colonizzatori trasformavano il pianeta in uno scacchiere nucleare. L’URSS gestiva, con Chruščëv e poi Brežnev, l’eredità stalinista, le frizioni con i Paesi non allineati e l’espansione su scala globale dell’ideologia sovietica. Oltreoceano gli Stati Uniti, nel pieno del boom economico, scoprivano le proprie contradizioni: il maccartismo lasciava lo spazio alle lotte per i diritti civili ed i sogni (Martin L. King), anche se le minoranze d’origine africana o latina restavano ai margini. Il mondo non era mai stato così piccolo, e così polarizzato, ma si sentiva nell’aria un vento di speranza.
La musica in questo senso divenne linguaggio di chi rifiutava le divisioni e, alternativa alle ideologie, divenne megafono di una generazione che chiedeva un’evoluzione, in controtendenza ai muri che venivano eretti (Berlino, 1961). Le scelte artistiche di Dylan divennero una delle bandiere (come il teatro di Brecht o il cinema della Nouvelle Vague) in cui una generazione di giovani poteva riconoscersi: partito dal folk per approdare al rock, il cantautore del Minnesota rappresentava una spina nel fianco per quella narrazione patinata del sogno americano perennemente vittorioso.
E proprio quando la controcultura cercava un inno Dylan compose Like a Rolling Stone: l’idea di una realtà più variegata del semplice rosso o nero. La canzone registrata nel giugno del ‘65 (pochi mesi dopo la marcia da Selma a Montgomery) e uscita qualche settimana più tardi arrivava dove altri brani non erano arrivati: riflettendo sulla solitudine e sull’isolamento, parla di chi perde ogni stabilità ritrovandosi a vagare senza meta; una canzone che non osanna i perdenti, ma che li racconta con pietas (latina) e che ricorda la difficoltà di trovare un’identità ed il suo significato. Un vero e proprio inno capace di rompere gli schemi: dalla durata – che passava dai canonici 3’ delle hit radiofoniche a interminabili 6’ – al testo che diventava metafora della precarietà esistenziale, un arrangiamento che raccontava il passaggio dal folk al rock dell’artista e quel verso “How does it feel to be on your own?” (“Come ti senti ad esser solo?”) che poteva valere a Praga, così come a Roma, Parigi o San Francisco.
Le canzoni non hanno forse trasformato quell’epoca, ma come il cinema e altre arti, hanno contribuito a raccontare un mondo che stava cambiando, e come ricorda il critico Greil Marcus “Dylan non scrisse un manifesto politico, ma la colonna sonora perfetta di un’epoca che sognava di cambiare tutto”. Interessante anche come lo stesso Marcus non esprima un’opinione su come andò a finire.
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