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09 Agosto 2025 - 10:14
don Luigi Ciotti (Foto Siciliani - Gennari/SIR)
Alla viglia dei suoi 80 anni, i 60 di Gruppo Abele e i 30 di "Libera contro le mafie", don Luigi Ciotti concede un’intervista al mensile “Vita Pastorale”. Alla giornalista Chiara Genisio parla di sé, dei giovani, della guerra e delle sfide che ci attendono. A settembre sarà in libreria, per le Edizioni San Paolo, con un nuovo libro dedicato alla sua vita e a ciò che ha imparato negli anni.
«Chiederò perdono». Risponde così il fondatore di Abele e Libera al mensile Vita Pastorale, per rispondere alla domanda su quale desiderio esprimerà nel momento in cui soffierà sulle 80 candeline: «Chiederò perdono perché non sono riuscito a rispondere ai tanti bisogni e richieste d’aiuto. Oggi mancano energie e denaro. Il pensiero – continua don Ciotti – va al non fatto, ai miei errori, ai miei limiti».
Una vita vissuta nel quotidiano seguendo due pilastri «il Vangelo e la Costituzione. Anche perché io vivo in un paese che amo. Siamo chiamati alla testimonianza cristiana e alla responsabilità civile. Ci sono dei momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo morale e una responsabilità civile».
Entrando nella stretta attualità e al concreto della responsabilità civile, don Ciotti ritiene che gli ingenti fondi del Pnrr siano a rischio infiltrazioni mafiose: «Ci sono dei segnali - spiega – La mafia non gode solo di sostegno attivo, ma anche di uno passivo che è alimentato da coloro che non si schierano».
Qui l’augurio brutale: «Allora io auguro di “morire”, un morire necessario alla vita e al suo infinito rigenerarsi. Una rinascita - precisa – presuppone che ci sia un passaggio di morte simbolica. Un morire che significa superar e una serie di idee, di pratiche che sono state importanti in passato ma oggi inadatte a costruire il mondo che vogliamo». Una rinascita che passa anche dalla solitudine: «Io auguro alle persone la solitudine. Perché così scopriamo il nostro mondo interiore. È anche la capacità di guardarsi attorno. Con i telefonini hanno una finestra aperta sul mondo, uno strumento di comunicazione ma non relazione. Dietro la digitalizzazione stiamo perdendo la relazione».
E arriviamo ai giovani, diminuiti di un quinto in vent’anni. I suoi occhi brillano quando ne parla, “perché sono capaci di creare il nuovo”: «I ragazzi oggi si sentono fragili. Su questo dobbiamo aiutarli a comprendere che la fragilità fa parte della nostra natura umana; L’avvenire è dove scegliamo di andare un tempo verso cui camminare insieme, non possiamo rimanere a guardare». Su come sostenerli spiega: «Ascoltiamoli, valorizziamoli, riconosciamoli. La scuola deve insegnare a pensare, a porsi delle domande. E la chiosa: Nella storia sono sempre stati i giovani a trainare i grandi cambiamenti. Dobbiamo credere in loro».
Sul clima dominato dalla tecnica teme «l’indifferenza e la superficialità che si sta diffondendo e che ci rende prigionieri del nostro io», mentre sulla strada da percorrere per intraprendere la pace in un contesto difficile come l’attuale, don Ciotti risponde: «La pace si costruisce con gli strumenti della pace: la diplomazia, la politica, l’aiuto umanitario. La Chiesa deve parlare ai popoli sofferenti (…) non possiamo essere come qualcuno vuole “equidistanti”. “Noi vogliamo essere equivicini”».
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