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24 Ottobre 2025 - 14:25
Nada Cella fu la vittima su cui “si scaricò tutta la rabbia e la frustrazione di una vita”. Lo ha detto il sostituto procuratore Gabriella Dotto, nella requisitoria del processo per omicidio che vede Annalucia Cecere come imputata principale e Marco Soracco, il datore di lavoro della vittima, accusato di favoreggiamento.
Cecere, oggi 57enne, è la donna che nel 2021 gli inquirenti hanno individuato come autrice del brutale omicidio avvenuto il 6 maggio 1996 a Chiavari, in uno studio commercialistico di via Marsala 14. Pochi mesi dopo avrebbe abbandonato per sempre la Liguria per trasferirsi alle porte di Cuneo, dove vive tuttora insieme al marito e al figlio e dove ha lavorato per qualche tempo come maestra.
La requisitoria nei suoi confronti è iniziata giovedì 23 ottobre a Genova: “È un processo complesso perché indiziario, per quanto riguarda l’attribuzione di responsabilità alla Cecere” ammette il pubblico ministero, reduce da una lunga indagine che ha visto anche una prima archiviazione da parte del gup, a cui l’accusa si è opposta con successo. Contro Cecere pesano molti dettagli raccolti già nell’immediatezza, ma abbandonati, a causa di “un cortocircuito tra informazioni in possesso dei Carabinieri e della Polizia”. Tuttavia, sottolinea Dotto, “due forze di Polizia che non si parlavano sono arrivate entrambe, nelle primissime ore, al nome della Cecere”.
L’imputata era quasi coetanea della vittima, non ancora venticinquenne quando fu uccisa. Una giovane donna con un passato difficile: orfana, ragazza madre, impiegata come donna delle pulizie ma in cerca di un suo posto nel mondo. “Fin dal momento in cui torna in Liguria, poco più che maggiorenne, cerca di sistemarsi con tutti gli uomini con cui ha una relazione” sostiene il pm, appoggiandosi alle testimonianze di amici e parenti. Tra questi ci sarebbe stato, appunto, Marco Soracco. Non un conoscente occasionale, afferma l’accusa, smentendo quel che i due hanno sempre sostenuto, ma un uomo a cui la Cecere avrebbe perfino rivolto una proposta matrimoniale: nella segretaria vedeva un ostacolo alla loro relazione.
Si cita la testimonianza di una vicina e confidente della Cecere, a cui lei parlava della frustrazione “perché non riusciva a trovare lavoro mentre altre, ‘campagnole e montanare’, ci riuscivano”. Un elemento che secondo gli inquirenti porta dritto a Nada, originaria di Alpepiana in val d’Aveto, nell’entroterra genovese. L’indizio cardine del “cold case” è un bottone che le Forze dell’ordine ritrovarono sotto alla nuca della vittima, ancora viva quando venne soccorsa: non ne venne trovato uno analogo sul mercato chiavarese, tra negozi e grossisti, ma è del tutto compatibile, secondo l’accusa, con quelli sequestrati durante la perquisizione dei Carabinieri in casa della Cecere.
A lei riporterebbe anche il “photofit”, realizzato dai militari sulla base delle indicazioni di due mendicanti. I due testimoni, madre e figlio, affermarono di aver visto una donna agitata e con una mano sporca di sangue, nelle immediate vicinanze dello studio di via Marsala: il pm ha proiettato il disegno in aula, di fianco a una fototessera coeva dell’imputata. “La somiglianza è evidente” dice, per un identikit realizzato “prima ancora di acquisire immagini della Cecere”.
Soracco e la madre, Marisa Bacchioni, sarebbero stati consapevoli fin dal primo momento che Nada non era stata vittima di un incidente ma di un’aggressione (il termine è utilizzato dal commercialista in una telefonata con una cliente dello studio, da quest’ultima riferita) e anche dell’identità dell’aggressore. Lo dimostrano, argomenta ancora il magistrato, le intercettazioni carpite ai due nel 2021, quando madre e figlio vennero convocati dalla Squadra Mobile. La Bacchioni accomuna Nada e “quell’Annalucia”, ritenute colpevoli entrambe di aver arrecato “fastidi” alla famiglia: “È un momento in cui la Cecere non era ancora entrata né nelle indagini né nelle informazioni giornalistiche, dopo venticinque anni di anonimato”.
Sui perché di questo ostinato silenzio ci sono solo ipotesi. Il datore di lavoro per lungo tempo fu l’unico indagato del delitto, con possibili moventi che chiamavano in ballo non meglio precisati traffici legati allo studio. Avrebbe avuto tutte le ragioni per indicare un possibile colpevole, ma tacque molte circostanze: sulla reale natura dei rapporti con la Cecere, da cui aveva subito molestie nei giorni precedenti, su una strana telefonata ricevuta poco dopo il delitto (“Se questo ti può far star bene non sono mai stata innamorata di te, anzi mi fai schifo”) e sui sospetti che sia lui che la madre avrebbero condiviso. Il pm mette tutto questo in relazione con le influenze subite allora e in seguito: “Iniziamo a capire che c’erano consigli importanti sul fatto che sarebbe stato bene che il nome della Cecere rimanesse completamente fuori da questo processo, non nell’interesse della Cecere ma di Soracco”.
La requisitoria si concluderà giovedì prossimo, il 30 ottobre, con le richieste di pena. Poi, dopo due settimane di sospensione, sarà la volta della parte civile e delle difese, per la cui discussione sono previste tre diverse udienze. Il 18 dicembre si attende la sentenza della Corte d’Assise che metterà una conclusione almeno provvisoria, dopo oltre ventinove anni, a uno dei grandi delitti irrisolti della storia italiana.
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