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21 Settembre 2025 - 10:20
Robert Redford al Sundace Festival
Quando si parla di cinema e spettacolo siamo spesso abituati ad immaginare tra i principali artisti esposti politicamente gente come Micheal Moore o Clint Eastwood (se pensiamo ai due estremi) e nel mezzo a personaggi alla George Clooney o Angelina Jolie, o ancora divi della TV come Ophra Winfrey, abituati a partecipare a raccolte fondi oppure a lasciare una dichiarazione in una occasione solenne per difendere una determinata causa. Difficilmente viene da pensare ad un personaggio come Robert Redford, morto qualche giorno fa.
Forse perché troppo pop, oppure eccessivamente sognatore, da non sembrare vero? Redford rispetto ad altri non si è limitato a sfruttare la propria posizione di vantaggio di personaggio pubblico per portare avanti delle posizioni politiche, si è sporcato le mani, esercitando il ruolo di cittadino,come chiunque altro, e provando a dare il proprio contributo.
Ma l’attore feticcio di Sidney Pollack è stato un grande agitatore culturale, capace di influenzare il proprio paese e quindi di imprimere un’impronta, politicamente, almeno per 4 ragioni.
Fin dagli albori della sua carriera ha usato la sua popolarità non per consolidare un'immagine comoda, ma per veicolare storie scomode: non è stato il "bel faccino" di successo de La Stangata, ma un attore strategicamente impegnato. In Tutti gli uomini del presidente (1976) divenne il simbolo di una stampa libera e coraggiosa, faro di verità in un momento di crisi profonda per la democrazia americana. Ma è già con The Candidate (1972, Il Candidato) che compie un'operazione geniale e meta-cinematografica: appena diventato una star, sceglie un film che smaschera i meccanismi vuoti e mediatici della politica moderna, proprio quelli che lui stesso avrebbe potuto essere tentato di sfruttare. Interpretando Bill McKay, un avvocato idealista che si corrompe per vincere, Redford non si limita a recitare; mette in guardia il pubblico sul culto dell'immagine e sul pericolo dello stile che sovrasta la sostanza. È una critica feroce alla spettacolarizzazione della politica, resa ancor più potente dal suo stesso status di sex symbol. Temi quanto mai attuali ancora oggi, almeno tanto quanto Corvo Rosso non avrai il mio scalpo (1972) o I compari (1969), in cui portò sullo schermo la complessità e la tragedia della storia americana, dando voce e dignità alle comunità native e ai loro diritti, spesso mettendo in discussione il mito del West stesso. Ogni ruolo, incluso quello di un politico cinico e disilluso, era una scelta precisa, un tassello di un più ampio discorso civile.
A differenza di molti colleghi, il suo attivismo non si è limitato alle dichiarazioni. Redford è stato un ambientalista convinto decenni prima che la crisi climatica diventasse un tema globale, battendosi instancabilmente per la conservazione delle terre pubbliche e contro la dipendenza dai combustibili fossili (ha fatto parte del comitato consultivo dell’Associazione Sea Shepherd). Ha combattuto per i diritti delle minoranze, in particolare i nativi americani, non solo sul schermo ma sostenendo cause e iniziative legali. La sua è una voce che ha mantenuto credibilità trasversale perché percepita come autentica, radicata in valori e non in opportunismi del momento, avvicinandolo per costanza a figure come George Clooney ma con un'impronta più da "uomo del West" che da divo.
Dal punto di vista artistico Redford ha compreso ben presto che la vera influenza artistica e politica passava dal controllo dei media, ed ecco che anche il suo esordio alla regia con Gente comune (1980), premiato con l'Oscar, non fu una mossa per la propria carriera, ma una dichiarazione d'intenti: voleva raccontare le fragilità dell'America reale, che il cinema mainstream spesso ignorava. Da regista, ha così potuto approfondire temi a lui a cuore con maggiore libertà e profondità: uno su tutti, forse l’ultimo in questo senso, resterà Leoni per agnelli (2007), un diretto j'accuse alle guerre in medioriente e sul cinismo della politica. Questo passaggio gli ha permesso di evolversi da interprete ad autore a tutto tondo, consolidando un'autorità che andava ben oltre lo star system. Ed è forse con questa ragione che si spinse fino alla scelta più coraggiosa (e per l’epoca anche estrema): nel corso degli anni ‘70 Redford aveva cominciato ad acquistare alcuni terreni nello Utah per preservare la natura di quelle aree ed avere un luogo di riposo lontano dal caos di Hollywood. Nel 1981 poi, dopo l’esperienza di Gente Comune e con l’amico Sidney Pollack, in quelle zone decide di costruire un luogo in cui permette a giovani registi di imparare cose nuove e crescere professionalmente senza dover per forza piegarsi alle logiche più commerciali del cinema mainstream. Investendo capitali e influenza, la creazione del Sundance Film Institute prima, e del successivo Festival, ha così dato voce a una generazione di cineasti indipendenti – da Quentin Tarantino a Steven Soderbergh, dai fratelli Coen a Ryan Coogler – che altrimenti non avrebbero avuto la possibilità di crescere senza l’assillo del successo o del “tutto e subito”. È stata la sua più grande "opera politica", un investimento sul futuro della cultura americana che ha cambiato per sempre il volto del cinema. Ripensare agli sforzi di Redford, oggi, sembra quasi paradossale, se si pensa alla situazione in cui stiamo vivendo. Lo stesso Redford in quell’occasione aveva dichiarato: "Penso che tutta questa faccenda sia un brutto film. Sto solo aspettando che scorrano i titoli di coda. Sto aspettando che finisca. Noi gli sopravviveremo. Abbiamo avuto altri presidenti che sono arrivati e che non ci piacevano. Gli siamo sopravvissuti. Il paese è resiliente. Quindi conto sulla resilienza del paese per superare questo brutto film."
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