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László Krasznahorkai, un Nobel apocalittico sulle soglie del Caos.

L'autore ungherese ha vinto il massimo riconoscimento letterario con le sue opere dove indaga il lato oscuro dell'uomo, in un'era in cui la danza sull'abisso è tornata pericolosamente vicina al bordo.

László Krasznahorkai, un Nobel apocalittico sulle soglie del Caos.

László Krasznahorkai

Nel loro caustico "Il cretino in sintesi", presa in giro dei birignao pseudointellettuali, Fruttero e Lucentini partivano dal Nobel per la Letteratura assegnato alla Szymborska, nel 1996, per il loro pezzo "Totò e il Nobel", dove immaginavano Totò fingersi una poetessa polacca per irridere la scena culturale costretta a far finta di aver sempre conosciuto la poco nota autrice (naturalmente, la Szymborska in seguito divenne davvero celebre e antologizzata). Un sarcasmo impeccabilmente sabaudo verso le ipocrisie del midcult, ma anche una frecciata allo snobismo dell'élite del Premio Nobel letterario sempre più volta ad autori rilevanti certo ma marginali nella scena globale. Così, era evidente che l'idea di un Nobel a Stephen King (il grande autore popolare dei nostri tempi) fosse assolutamente impossibile, nonostante da ultimo si è iniziato ad ammettere il suo valore letterario. Tuttavia, Krasznahrkai è indubbiamente un autore adatto ai nostri tempi difficili. La motivazione del Nobel all'autore, ebreo ungherese nato nel 1954, lo giustifica "per la sua opera avvincente e visionaria che, nel mezzo del terrore apocalittico, riafferma il potere dell'arte". E in effetti l'opera dell'autore si caratterizza per romanzi molto lunghi, construtture narrative complesse, frasi estese, atmosfere cupe, paesaggi sociali decadenti e appunto apocalittici, con personaggi che vengono spinti al limite della resistenza o fino alla follia. Il suo romanzo d'esordio, "Satantango", del 1985, è in questo emblematico: in un villaggio rurale ungherese, abbandonato e in rovina dopo il collasso di una cooperativa agricola, gli abitanti vivono in uno stato di inerzia e degrado. Un uomo misterioso, Irimiás — creduto morto — ritorna e promette loro una salvezza collettiva. Ma la sua “redenzione” si rivela un inganno: un nuovo giro di sfruttamento, illusione e distruzione. Un tango satanico, un movimento circolare, senza progresso, che suggerisce una condanna ciclica e inesorabile. Un tema che torna anche in "Melanconia della Resistenza" (1989), dove in una piccola città ungherese arriva un circo itinerante che espone la carcassa di una balena gigante. L’arrivo scatena nel paese un caos crescente, e attorno a questa “presenza” gravitano figure enigmatiche, mentre la balena diventa simbolo della fine dell’ordine, della dissoluzione morale, e forse del risveglio di forze oscure che covavano sotto la superficie. Questa e altre opere hanno fatto ammettere Krasznahrkai nel salotto buono della "letteratura mitteleuropea", con paragoni che lo avvicinano a Kafka e Musil (e magari potremmo aggiungere il nostro Buzzati, che però poco amava questo incasellamento kafkiano). Personalmente, nel ripromettermi di approfondire l'autore, trovo che il tema della circolarità e dell'eterno ritorno indubbiamente hanno qualcosa di nicciano, magari non lontano alle ossessioni di "True Detective" (2015), dove l'orrore del ripetersi dell'identico è associato, con originalità, al tema del serial killer (come indagato anche da Durrenmatt ne "La Premessa"): il tempo è un cerchio piatto, come insegnano Nietzsche, Bierce, Chambers e Lovecraft. Ma, probabilmente, a Nic Pizzolatto il Nobel per la Letteratura non lo daranno mai: troppo maledettamente pop.

 

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