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17 Novembre 2025 - 09:26
Negli ultimi giorni una nuova discussione ha attraversato il dibattito culturale italiano: il tema del lavoro culturale non remunerato. Se ne parla da tempo, ma è riesploso dopo un intervento dello scrittore Jonathan Bazzi che ha condiviso il suo (impietoso: minime entrate, spese consistenti per vivere a Milano) estratto conto dell'ultimo mese, una mossa forte e ad effetto, che ha funzionato.
Ma perché chi produce cultura è così spesso invitato a farlo gratis?
Già Luciano Bianciardi, nel 1962, ne La vita agra, descriveva con chirurgica ironia la condizione dello scrittore-precario, immerso in un sistema editoriale che sfrutta le aspirazioni culturali senza restituire sicurezza o riconoscimento economico.
Sessant’anni è cambiato tutto, ma non la sostanza (anzi, addirittura peggiorata).
Da un lato esistono figure dipendenti (redattori, tecnici...), che dovrebbero godere delle stesse tutele previste per qualsiasi lavoratore: contratto, ferie, malattia, compensi certi. Se l'industria culturale non è in grado di fornirglieli, dovrebbe andare verso la chiusura invece di vivere sullo sfruttamento (per quanto anche questo sarebbe certo un problema, almeno per chi non è giovanissimo).
Dall’altro c’è il mondo ampio, fluido e spesso precario dei creativi freelance: scrittori, sceneggiatori, illustratori, saggisti, giornalisti non contrattualizzati. Qui il meccanismo è quello tipico del mercato libero: si produce, si propone, si spera. E in questo gioco di pubblico e offerta, la cultura viene spesso percepita come un hobby, non come una professione.
A queste difficoltà strutturali si è sempre più aggiunto un fattore decisivo: la saturazione dei contenuti. Già nei primi anni 2000 si diceva come gli ultimi trent'anni avessero prodotto una mole di informazioni pari a quella di tutti i millenni precedenti.
Internet 2.0, da allora, ha moltiplicato esponenzialmente l'accesso alla produzione culturale: chiunque può aprire un blog, pubblicare un romanzo autoprodotto, diffondere testi sui social. Ma, al contempo, l'attenzione del pubblico dei lettori è sempre più bassa, in una saturazione di contenuti anche visivi e video.
Una sproporzione che rende il mercato dei contenuti iper-competitivo e al tempo stesso poco remunerativo.
Negli ultimi anni una nuova variabile ha iniziato a pesare sul discorso: l’intelligenza artificiale generativa.
Come osserva Francesco D’Isa, l’AI è uno strumento “abilitante”: permette a persone che prima faticavano a scrivere o disegnare di produrre testi, immagini, narrazioni con estrema facilità. Ma ciò che abilita, al tempo stesso satura.
Se il numero di contenuti già superava la capacità del pubblico di leggerli, ora la sproporzione tende ad aumentare esponenzialmente.
Il mercato culturale diventa un fiume in piena: troppo grande per essere regolato dalle logiche tradizionali della remunerazione.
Non a caso, Raffaele Alberto Ventura ne La classe disagiata descrive da anni il paradosso di una società in cui sempre più persone puntano a professioni creative mentre il valore economico della creatività, nel mercato di massa, si contrae. Si allarga così la forbice tra capitale culturale (sempre più presente, sempre più diffuso) e capitale economico (che invece scarseggia). Il risultato è una generazione di lavoratori culturali costretti in un limbo: professionalizzati ma non retribuiti, capaci ma non remunerati, produttivi ma spesso invisibili.
Ed è a questo punto che emerge un pensiero:
io stesso, mentre scrivo queste righe, mi sento parte del problema.
Sto aggiungendo un altro testo all’oceano dei testi; un’altra opinione all’infinito catalogo delle opinioni.
La saturazione culturale non è una circostanza esterna: è un meccanismo che alimentiamo noi stessi, ogni volta che cerchiamo di “contribuire”. E allora magari, come suggerirebbe un Bartleby dei nostri tempi, la soluzione più radicale sarebbe proprio questa: non più produrre, ma sottrarci. Non dire, ma tacere. Non aggiungere, ma lasciare spazio. Ma in un mondo in cui tutti scrivono, pubblicano, commentano, argomentano senza sosta, il gesto culturalmente più sovversivo – e più prezioso – potrebbe diventare la semplice decisione di non farlo. Forse, in fondo, il contributo più alto alla cultura è il ritrarsi da essa.
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