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“Anniversari di messa”, momento di gratitudine al Santuario

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In Basilica a Vicoforte, giovedì mattina, si è vissuto il momento essenziale e più prezioso, con la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo mons. Egidio Miragoli, per la annuale Giornata di fraternità sacerdotale, anche ricordando significativi anniversari di ordinazione presbiterale. Per le norme anti-Covid non sono state possibili altre modalità di incontro e di condivisione. “E’ importante ritrovarci, per ringraziare della chiamata al ministero sacerdotale – ha detto il vicario generale don Flavio Begliatti –, unendoci nella preghiera e nell’Eucaristia”. Lo stesso vicario ha poi citato gli anniversari di ordinazione giunti ad una cifra da sottolineare: 25° per p. Valter Illera (Padri Filippini); 35° per p. Roland Indandula Mulebo; 45° per don Paolo Biestro, don Candido Borsarelli, don Sergio Borsarelli, don Antonio Calandri e don Gianfranco Lombardo; 60° don Luigino Galleano e don Giancarlo Galliano; 65° don Egidio Vignolo. Nell’omelia, il vescovo mons. Egidio Miragoli, oltre ad inquadrare la celebrazione nel giorno della memoria della Madonna di Fatina (nell’anniversario della prima apparizione) e nel 40° anniversario dell’attentato a san Giovanni Paolo II in p.za San Pietro, ha indicato nel modello – per i pastori – già suggerito da Papa Francesco, ovvero san Giuseppe di Nazareth, la figura di riferimento di padre che accoglie, che custodisce e che sogna e fa sognare. L’omelia del vescovo a sacerdoti e diaconi su fraternità, paternità e sponsalità «È il 13 maggio, e, secondo tradizione, ci ritroviamo per la festa degli anniversari, che la nostra Diocesi è solita chiamare e vivere come Giornata di fraternità. Ancora una volta le circostanze di questi anni ci costringono a modificare lo schema abituale, e ci limitano alla sola concelebrazione eucaristica. Consoliamoci pensando che ci viene lasciato l’essenziale, ciò che conta davvero - ha detto il vescovo Egidio nell’omelia all’Eucaristia per la Giornta di fraternità sacerdotale giovedì mattina in Santuario a Vico -. È il 13 maggio, una data significativa per il calendario liturgico e per altri motivi. Anzitutto, vi si onora la Madonna che in questo giorno dell’anno 1917 apparve a Fatima, primo di una serie di appuntamenti con Lucia e i suoi due cugini, Francisco e Jiacinta. Una delle tante apparizioni mariane, ma “senza dubbio la più profetica delle apparizioni moderne”, certamente tra le più note e significative, anche per i messaggi che la Madonna lasciò e che in parte, per lungo tempo, furono custoditi come “il segreto di Fatima” o “il terzo segreto di Fatima” che tanto ha incuriosito credenti e non credenti». 13 maggio, ieri e oggi «Una storia appassionante, dunque, che ha visto tante supposizioni, tante interpretazioni; una storia che non può lasciare indifferenti noi che crediamo nel Dio della Storia, né può tollerare atteggiamenti di sufficienza, alla luce anche di quanto avvenne poi, esattamente 40 anni fa - ha continuano il vescovo -. Il 13 maggio 1981 fu compiuto, infatti, l'attentato a Papa Giovanni Paolo II in Piazza San Pietro, e ricorderete che il Pontefice polacco volle legare la sua salvezza proprio alla mano della Vergine, dedicandole parole di grande suggestione. Disse: «Potrei dimenticare che l’evento in Piazza san Pietro ha avuto luogo nel giorno e nell’ora nei quali da più di sessant’anni si ricorda a Fatima nel Portogallo la prima apparizione della Madre di Cristo ai poveri contadinelli? Poiché, in tutto ciò che mi è successo proprio in quel giorno, ho avvertito quella straordinaria materna protezione e premura, che si è dimostrata più forte del proiettile micidiale» (Udienza generale, 7 ottobre 1981). Come che si vogliano connettere i due eventi e quale che sia il significato sul piano spirituale e storico che gli si annetta, certamente questa data è, per un cattolico, una data significativa, tanto più alla luce della rivelazione della terza parte del segreto di Fatima e della sua interpretazione, che Papa Giovanni Paolo II volle dare il 13 maggio 2000 “nel passaggio dal secondo al terzo millennio”. Ma veniamo alla nostra Giornata di fraternità». Fraternità «La parola “fraternità” dovrebbe caratterizzare, connotare il legame tra noi. Non è inutile, né banalmente ripetitivo sottolinearlo - ha aggiunto il vescovo -. Anzi, dircelo ancora dovrebbe spingerci a chiederci una volta di più che cosa sia la fraternità presbiterale. La teologia del presbiterio dice che la nostra fraternità poggia sul comune radicamento nel sacramento dell’ordine. Come evidenzia il Concilio nella “Lumen gentium”, l’ordinazione e la missione rendono i sacerdoti “fra loro legati da un’intima fraternità che deve spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e personale, nelle riunioni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità” (Lumen gentium 28). Sono parole belle, da cui derivano conseguenze sia spirituali sia operative. E solo se sono corrette le prime possono ben funzionare le seconde. Perché sentirsi “fratelli” nella vita quotidiana è l’aspetto più arduo, e può essere attuato nella pratica effettiva solamente se prima è compreso e voluto nella dimensione spirituale. Si suol dire che “i fratelli non si scelgono”. In genere si fa riferimento ai fratelli di sangue. Ma lo stesso vale anche nel presbiterio. Questa può essere oggettivamente una difficoltà iniziale: i nostri confratelli ci sono differenti per età, carattere e formazione, ma, se questo vale anche in altri ambiti (penso ai colleghi in un ufficio, o in una scuola), tuttavia tra sacerdoti le cose devono porsi in maniera diversa. Ed è ovvio: noi non ci guardiamo soltanto fra noi, non possiamo solo limitarci a scorgere pregi e difetti degli altri operai nella vigna del Signore. Noi, lavorando in quella vigna, abbiamo a cuore la nostra missione e il suo esito, che rimarrebbe compromesso se non dessimo, per usare le parole di Papa Luciani al Sacro Collegio dei Cardinali che lo aveva eletto da poche ore, “spettacolo di unità”. La fraternità, dunque, ci è richiesta proprio dalla natura stessa del nostro ministero: guardando a Cristo e alla costruzione del Regno, possiamo superare le differenze, o anche le piccole insofferenze reciproche, e sentirci nobilmente fratelli nella comunione che quello sguardo fisso sul Signore comporta, crea e ci chiede». Paternità «Ma la fraternità non è l’unica relazione che ci caratterizza. Come accennato, siamo presbiterio per una missione, per l’annuncio e la testimonianza, per la cura del popolo di Dio, a servizio dei nostri fedeli - ha spiegato il vescovo -. Non siamo burocrati o funzionari, o padroni. Siamo chiamati ad essere padri. Fratelli fra noi e padri di coloro di cui ci è affidata la cosiddetta “cura d’anime”. Papa Francesco ha declinato la paternità del prete attingendo alla figura di san Giuseppe, cui è dedicato questo anno. Parlando a un gruppo di sacerdoti, ha specificato che ciascuno di noi dovrebbe essere padre che accoglie, padre che custodisce e padre che sogna. Tre verbi impegnativi, e di crescente audacia concettuale. In fondo, sentirci dire che dobbiamo accogliere non costituisce una grande novità. Se mai, può essere meritevole di riflessione il fatto che dobbiamo accogliere come accoglie un padre. E qui, la questione assume una tinta precisa, interrogandoci nel profondo. Un buon padre come accoglie i suoi figli? Per vincolo di sangue, li accoglie sempre, tutto perdonando, sempre sperando che il loro ritorno inauguri o continui un rapporto profondo e fecondo. Noi non abbiamo un vincolo parentale con i fedeli che la Chiesa ci affida. Ma la Chiesa ci chiede di accoglierli vivendo in un costante e imprescindibile “come se”. Come se ne fossimo davvero dei buoni padri. Come se non potessimo fare a meno di amarli. Come se mai potessero deluderci definitivamente. Come se ci stessero a cuore più della nostra stessa vita. Il secondo verbo indicato da papa Francesco è “custodire”. E’ un verbo bello, sa di protezione, di oggetto sottratto a pericoli e insidie, di cura. Che il prete custodisca come un buon padre a me fa venire in mente l’idea di “gelosia”. Un padre, degno di questo nome, custodisce, infatti, gelosamente i suoi figli, non vuole che il male del mondo li tocchi, li vuole preservare dalla banalità degli errori cui la vita li può indurre. E custodire è cosa del cuore, forse avviene soprattutto nel cuore. Ecco, il prete che custodisce come un padre il suo gregge non può che averlo nel cuore e nel cuore, in ogni istante, sentirlo. Con la forza, appunto, dell’amore paterno, vigile e protettivo. Sognare”, infine. Che cosa sogna un buon padre per i suoi figli? La gioia, la salute, la ricchezza, la serenità. In una parola, il bene. Come preti, questo non può che coincidere con la centralità di Cristo e della sua Parola nelle nostre comunità. Dobbiamo avere la forza di sognare che le nostre comunità siano cristiane davvero, e per questo pregare e lavorare ogni giorno. E se il verbo “sognare” reca in sé una certa percentuale di fantasia o di utopia, forse Papa Francesco proprio a questo voleva implicitamente esortarci: a superare il rischio della routine e del grigiore, magari del pessimismo o troppo realismo, per aprirci alla novità, all’entusiasmo, alla freschezza. Un padre che sogna, se sogna davvero, non sarà mai un padre stanco o demotivato. Mai si arrenderà. Sognare, per noi, vuol dire anche, e soprattutto, credere alla libertà dello Spirito che opera oltre ogni nostra aspettativa, e sovente, addirittura, ci precede, come ben ci ha detto la pagina degli Atti di quest’ultima domenica, dove si narra di quanto avvenuto nella casa del centurione Cornelio». Sponsalità «C’è, infine, una terza relazione che ci caratterizza e che in ordine logico dovrebbe essere la prima - ha affermato il vescovo -. Vi fa esplicito riferimento l’esortazione post sinodale “Pastores dabo vobis” al n. 22: “L'immagine di Gesù Cristo Pastore della Chiesa, suo gregge, riprende e ripropone, con nuove e più suggestive sfumature, gli stessi contenuti di quella di Gesù Cristo Capo e servo. […]. Il donarsi di Cristo alla Chiesa, frutto del suo amore, si connota di quella dedizione originale che è propria dello sposo nei riguardi della sposa, come più volte suggeriscono i testi sacri. Gesù è il vero Sposo che offre il vino della salvezza alla Chiesa. Lui, che è il «capo della Chiesa…e il salvatore del suo corpo» (…) La Chiesa è sì il corpo, nel quale è presente e operante Cristo Capo, ma è anche la Sposa, che scaturisce come nuova Eva dal costato aperto del Redentore sulla croce: per questo Cristo sta «davanti» alla Chiesa, «la nutre e la cura» con il dono della sua vita per lei”. Frasi ineccepibili e molto belle. Ma, il sacerdote, è chiamato, a sua volta, in forza della sua configurazione a Cristo, a essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa; egli stesso è sposo della Chiesa e della “sua” Chiesa, ovvero di quella porzione del popolo di Dio che è la sua Parrocchia, o della sua missione particolare, quale che essa sia. La sua comunità, pertanto, non è semplicemente il luogo e l’oggetto del suo servizio, del suo ministero, ma è la sua casa, la sua famiglia, la sua sposa. Resto all’esempio dei parroci, il più diffuso e il più adatto, e vorrei dire loro, a me (ma non senza rivolgermi a tutti): amate la Chiesa, il vostro impegno pastorale, la vostra Parrocchia. Amiamola come lo sposo ama la sposa, ardentemente e teneramente. Pensiamola come il senso della nostra vita, come il corpo concreto per il quale viviamo, e nel quale vogliamo incontrare la bellezza, la vita, il senso dei nostri giorni. Proprio come nella pratica effettiva della vita matrimoniale, non saranno tutti giorni facili, e per molti di noi ilo vigore della giovinezza potrà anche essersi affievolito. Eppure, lì si realizza la nostra vocazione, lì perdiamo la nostra vita e la salviamo. Amando nell’umile quotidianità le nostre “spose”, spendendoci per loro, essendo in loro il chicco che morendo dà frutto». Con l’intercessione di Maria «Carissimi, alla Madonna affidiamo tutte le relazioni che ci impegnano nella vita sacerdotale ha concluso il vescovo -. A Lei chiediamo di essere buoni fratelli dei nostri confratelli, buoni padri dei nostri figli spirituali e buoni sposi della nostra Chiesa, mentre ricordiamo i nostri anniversari di ordinazione e festeggiamo in modo particolare alcuni nostri confratelli che hanno raggiunto traguardi significativi. Certo, Maria vede anche che quest’anno non possiamo celebrare nessun cinquantesimo e nessun venticinquesimo di presbiteri diocesani, quasi a ricordarci che la crisi delle vocazioni è iniziata da non pochi lustri: il tempo dell’arsura risale ad anni lontani, purtroppo. Ciascuno di noi possa condurre una vita limpida e impegnata, capace di far trasparire la bellezza della nostra vocazione, incarnandola in maniera positiva, se non attraente: dovremmo, infatti, essere capaci di indurre anche i giovani, così restii e così distratti da altri modelli, a “scegliere come ideale di vita il servizio a Cristo nei fratelli”. Pensate che bello, sarebbe se ognuno di noi potesse concludere la sua corsa potendo gettare il proprio mantello sulle spalle di un giovane che ne raccoglie l’eredità spirituale, come avvenne per Eliseo da parte di Elia. L’impegno è arduo, indubbiamente. Facciamo tutto ciò che dipende da noi, confidando che lo Spirito Santo ci aiuti e che la Madonna interceda».
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