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19 Novembre 2025 - 11:39
(immagine generata con uso della IA)
di MARIANNA MANCINO (“La Fedeltà”)
D. ha concluso da poche settimane il ciclo di incontri “Men in progress” presso il CUAV di Cuneo. Ha cinquant’anni, risiede in un’altra provincia del Piemonte: ha alle spalle un matrimonio e una convivenza. È padre di due figli: uno avuto dall’ex moglie, l’altro dalla sua ex compagna che, nel 2019, lo ha denunciato due volte per stalking pochi mesi dopo aver interrotto la convivenza. Con due sentenze di primo grado in due differenti Tribunali è stato condannato rispettivamente a un anno e due mesi e a sei mesi di reclusione con la sospensione condizionale della pena. È stato “costretto” a partecipare al percorso per uomini autori di violenza, come previsto dalle linee guida regionali, per assolvere l’obbligo imposto nelle sentenze emesse dai giudici. «Cento chilometri all’andata e altrettanti al ritorno – racconta – sapevo che ogni martedì era quello il mio impegno».
Attualmente ha una compagna?
Ho una compagna con cui non convivo.
Ha mai pensato di avere un lato ombra o difficoltà nelle relazioni?
No, mi considero una persona trasparente e tranquilla, credo però di avere un lato silenzioso. Non mi piace discutere per futili motivi e quindi a un certo punto tendo a chiudermi in me stesso e a non interagire più.
Perché ha accettato di farsi intervistare?
Ho partecipato molto attivamente al percorso e al gruppo, anche gli operatori lo hanno riconosciuto. Credo sia importante trattare questo argomento e portare la mia testimonianza.
Come ha affrontato il percorso proposto dal CUAV di Cuneo?
Nei primi colloqui individuali ho cercato di raccontare la mia vita perché potessero capire che persona sono. Dopo la separazione dalla mia compagna avevo già avuto colloqui simili in neuropsichiatria infantile per definire le modalità di incontro con mio figlio che, all’epoca, aveva sei anni. L’idea di affrontare un percorso anche all’interno di un gruppo mi incuriosiva: nei primi due incontri sono stato in disparte. Ognuno di noi cercava di raccontarsi. Nelle riunioni successive ho iniziato a prendere la parola su diversi argomenti. Gli altri raccontavano la loro storia e io esprimevo ciò che condividevo o meno, ma senza giudicare. Oltre ai problemi che mi riguardavano, volevo capire le altre problematiche che pesano nella vita coppia o quando ci si trova ad affrontare una separazione.
Come descriverebbe l’ambiente familiare in cui è cresciuto?
Ho avuto una madre molto presente, mio padre ha sempre lavorato molto e avevamo poco tempo libero da condividere. Ma c’è sempre stato per noi figli, in famiglia l’educazione. Veniva prima di tutto, non ricordo di aver mai ricevuto uno schiaffo dai miei genitori. Loro, tolto qualche normalissimo screzio, sono sempre andati d’accordo e hanno sempre vissuto uno per l’altro.
Lavora? Di cosa si occupa?
Da trentaquattro anni lavoro come magazziniere e carrellista. Lo faccio anche se non mi piace particolarmente, ma ci sono abituato. Qualche anno fa ho cambiato azienda e mi trovo bene: passo la maggior parte del mio tempo lì dentro, ho legato molto con i colleghi, posso quasi definirli una famiglia.
Che tipo di padre pensa di essere?
Con i miei figli ho sempre cercato di essere molto presente, quello che è accaduto in un caso e nell’altro è frutto anche delle ripicche venute fuori in seguito alla separazione. Fino a quando mi è stato possibile, ho sempre avuto con il mio secondo figlio un rapporto sereno e giocoso. Sono sei anni che non lo vedo. Ho iniziato a inviare messaggi alla madre quando ha cominciato a non farmi più vedere il bambino.
Ritiene di aver avuto atteggiamenti persecutori nei confronti della sua ex compagna?
Non ho mai agito nessuna violenza fisica. Probabilmente ho esercitato una forma di violenza psicologica. Soffrivo per le modalità in cui si svolgevano gli incontri con il bambino (sempre in presenza della mamma) e ad un certo punto le ho comunicato che avrei cercato di ottenere l’affidamento. Durante i processi gli avvocati della controparte hanno portato come prova 4.700 messaggi e mail che ho scambiato con lei nel corso di un anno. Un numero certamente elevato che riguardava anche le comunicazioni legate ai bisogni quotidiani di nostro figlio. Sono state estrapolate dal contesto alcune frasi che potevano essere lette come minacce o espressioni violente. Dopo aver ricevuto la prima denuncia ho reagito scrivendole qualcosa tipo: “Non ti vergogni di aver denunciato il padre di tuo figlio?”
Ma il suo giudizio qual è?
Il mio giudizio personale è che sia stata pronunciata una condanna esemplare per far emergere il problema della violenza di genere che esiste. Io non mi sono opposto e ho accettato di risultare uno stalker. Probabilmente in qualche maniera lo sono stato. Non ho mai negato niente, sto cercando di acquisire consapevolezza. Ho frequentato il corso perché ho pensato che mi sarebbe stato comunque utile.
Confrontarsi tra uomini su questi argomenti, disagi e difficoltà è ancora un tabù culturale?
Certo, esiste ancora un tabù, poi diciamo che l’orgoglio maschile frena molto la possibilità di affrontare certi temi. Questi percorsi dovrebbero essere aperti a tutti gli uomini, come accadeva una volta per la leva militare.
C’è un messaggio che vuole condividere con i lettori?
Non è un messaggio, è una parola. Ho capito che ogni relazione sana deve potersi basare sul “rispetto” prima di ogni altra cosa. Il rispetto nasce quando cominci a considerare anche i sentimenti e le emozioni dell’altra persona, i suoi momenti di stanchezza, il bisogno di sentirsi riconosciuta e ascoltata. Quando tornavo a casa dopo gli incontri ne parlavo anche con la mia compagna e lei mi incoraggiava dicendomi: “Vedi? Stai imparando qualcosa in più!”.
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