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Temptation island, ovvero "I Promessi sposi" in bikini: perché lo troviamo così irresistibile?

Da lunedì la prima stagione autunnale di Temptation Island: un reality che è diventato un fenomeno di costume. Analisi semiseria di un programma che oscilla tra trash e insospettabili archetipi letterari

Temptation island, ovvero "I Promessi sposi" in bikini: perché lo troviamo così irresistibile?

di PAOLO ROGGERO E LORENZO BARBERIS

Il pubblico vuole di più, il pubblico lo ottiene: lunedì 15 settembre è stata trasmessa una puntata speciale di Temptation Island, alla prima "autunnale". Il programma Mediaset prodotto da "Fascino", tiene banco tutte le estati con storie di coppie inserite in una sorta di girone paradisiaco in cui subiscono ogni sorta di tentazione da una pletora di uomini e donne compiacenti. Un programma che è diventato un vero e proprio fenomeno di costume in Italia, con numeri di share impressionanti e addirittura proiezioni pubbliche organizzate la scorsa estate per assistere alle avventure dei fidanzati e delle fidanzate. È un format sospeso tra grandi archetipi e il più puro trash della tradizione televisiva italiana.

Si tratta di un reality, quindi in teoria una delle trasmissioni più costruite del panorama televisivo, ma al tempo stesso, erede della coda lunghissima della tradizione del realismo italiano: dal "Fermo e Lucia" a Valentina e Oronzo, in sostanza. Il concetto è intrinsecamente affascinante: uomini e donne accettano di mettere consapevolmente, e con una certa tendenza masochistica, alla prova il proprio amore e quello dei rispettivi compagni esponendoli a ogni sorta di tentazione: è una sorta di versione postmoderna del Così fan tutte di Mozart.

Nel capolavoro mozartiano dell’opera buffa una scommessa mette alla prova la fedeltà di due fidanzate e due fidanzati, anche se in questo caso il topos misogino che attraversa la letteratura fino al Settecento espone alla tentazione solo la controparte femminile. In Temptation Island gli innamorati sono confinati in un moderno Locus Amoenus, un’ambientazione edenica; dalla letteratura classica fino all’Arcadia questo avrebbe significato un luogo bucolico e verdeggiante, caratterizzato da una natura ordinata e rigogliosa.

In epoca post moderna, in rielaborazione dei miti del boom economico, della “Vita in vacanza” come cantavano, non a caso, quelli dello Stato sociale, l’ambientazione non poteva essere che un lussuosissimo villaggio turistico, caratterizzato da una buona dose di esotismo di maniera, con palme e capanne. In questa sorta di ritiro i nostri ingannano il tempo, tra gli altri divertimenti, raccontando storie, come nel Decameron di Boccaccio. Qui però cominciano ad agire, subdolamente i tentatori.

Più che nel racconto biblico della mela proibita, a cui sembrerebbero alludere gli autori utilizzando scopertamente il lessico della tentazione, quanto accade fa pensare alla Tempesta di Shakespeare: l’ambientazione richiama il tema dell’isola e i tentatori, come tanti Calibani, tentano con ogni mezzo di sedurre e indurre in tentazione le malcapitate o i malcapitati. In un curioso gioco del contrario, lungi dall’essere brutti e ripugnanti, sono bellissimi e attraenti.

Naturalmente, si tratta di topoi antichissimi, e l’impiegatuccio frustrato che grida “trattenetemi!” ai nuovi amici acquisiti di fronte a cotanto bendidio a sua disposizione, non richiama forse Ulisse che si fa legare pur di assistere al canto delle sirene?

Lo spettatore dunque potrebbe chiedersi: ce la faranno i nostri Promessi sposi a coronare la loro storia d'amore nonostante le difficoltà che incontrano nei rispettivi esili?

Sospetto che in questo caso non sarà affidarsi alla Provvidenza divina a fare la differenza.

In ogni caso c’è un ultimo ingrediente che si aggiunge al quadro. Il materiale accumulato è sufficiente a generare una considerevole deflagrazione televisiva.

Manca il pretesto che possa innescare la scintilla. Ed ecco che, in una sorta di processo metatelevisivo, il narratore onnisciente, che è in scena e interloquisce con gli stessi protagonisti del dramma (una trovata degna di un romanziere post-moderno, sulla falsariga di Italo Calvino o degli autori del Gruppo 63) mostra loro video compromettenti delle azioni dei partner, nell’altro villaggio, innescando una serie di reazioni incontrollate, spesso speculari

I protagonisti spiati dal pubblico spiano a loro volta a mezzo video altri protagonisti. Sottointeso a tutto, il grande, ingombrante, concetto che sta a fondo di tutti i reality, anticipato da Orwell nel celebre 1984.

Il "Grande Fratello", che tutto vede e tutto sa e che agisce come una sorta di "Grande Inquisitore", di Deus Ex Machina, che mostra la verità, o una versione della verità (spesso diventa il mezzo per inganni orditi dagli stessi concorrenti).

Impietoso, dà conto a ciascuno di ogni sua azione, opera, omissione, come una sorta di versione estremamente semplificata di una giustizia ideale, che però prosaicamente si riduce al ruolo di comare di paese, enfatizzando continuamente ogni cedimento vero o presunto. Non va infine sottovalutato, per la confezione del tutto, la regia attentissima ad enfatizzare ogni momento del teledramma con una colonna sonora rigorosamente composta da classici del pop, gli stessi che accompagnano le estati e, quindi, gli amorazzi estivi degli spettatori che possono così immaginarsi in prima persona, protagonisti di stagioni del programma mai riprese e mai andate in onda.

La declinazione di tale materia narrativa è comunque piuttosto modesta.

Non dovrebbe stupire, naturalmente, ma se il trash italiano altrove ha avuto delle punte di prestigio (si pensi soprattutto a un Bonolis, attore e autore coltissimo che ama sguazzare nella fanghiglia dei gironi bassi, come Dante del resto) qui è tutto noiosetto anzichenò. 

Il moralismo è anni ’50: i fidanzatini sono allupati ma gelosissimi, le fidanzatine in lacrime di fronte alle goffe avances dei loro partner pseudobellocci con la pancetta, mentre attorno a loro si sbracciano modelli, calciatori, produttori di vini dionisiaci con fisici apollinei. E tutte le scenate da tragedia greca senza che sfugga di più di qualche parola maliziosa di troppo, qualche sguardo non abbastanza castigato...

Magari la tensione poi si innalza, ma qui è roba pruriginosa solo per una società ipercensurata (come forse siamo rimasti, sotto le finte paillettes della disinibizione sessuale). L’unica temptation, intesa come desiderio, che si sente di fronte a uno spettacolo di questo genere è quella dell’irrompere dell’altrove, del fantastico, di un godzilla, un’invasione aliena, un uragano che travolga i bungalow mentre la lava incandescente crema gli hula hoop. Allora forse ci si potrebbe iniziare a divertire, almeno fino a che il tentatore di turno non cominciasse a provarci anche con le venusiane scese dai dischi volanti.

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