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Guido, che ha fotografato tutto e tutti: «Ora smetto»

Dagli sposi ai reportage in Afghanistan, dalla pubblicità al fotogiornalismo: quasi 40 anni di scatti

Guido, che ha fotografato tutto e tutti: «Ora smetto»

«Smetto, dopo quasi 40 anni. E non perché non lavorerei… avrei ancora l’agenda piena. La verità? La fotografia era diventata un'ossessione, la mia vera malattia». Chiedere a Guido Galleano di parlare di fotografia è come chiedergli di parlare di sé stesso: son la stessa cosa.

Quel mondo, fatto di luci e ombre, se l’è cucito addosso. Nel bene e nel male. Uno dei fotografi più storici di Mondovì ha annunciato il suo – definitivo – ritiro dal mondo degli scatti. Guido ha lavorato con tutti e su tutto: matrimoni, cataloghi, pubblicità, fotogiornalismo, aerei, eventi. Si è fatto persino i reportage in Afghanistan. Il suo studio, fra via Sant’Agostino e via Piandellavalle, non riaprirà più.

Il fotografo è un mestiere in cui, negli ultimi anni, è cambiato tutto: non poco, tutto. Pensate alla differenza che passa fra l’utilizzare una macchina a rullino e poter invece avere scatti infiniti, col digitale. «Era così – racconta Guido –: avevi 15 scatti, non uno di più. Quindici “colpi”, e dovevano andare tutti a segno. E quando facevo le foto ai matrimoni, dovevo contare ogni scatto e pensare: quanti ne ho ancora, nel rullino? Quante ne devo ancora fare? Ho abbastanza scatti per lo scambio degli anelli? Eccetera. Mica si può chiedere al prete di fermare la messa perché il fotografo deve cambiare il rullino».

E ogni foto doveva essere buona: non c’era tempo di controllarla. «Se l’angolazione è perfetta ma la sposa ha gli occhi chiusi, quella foto è da buttare. Sai come fai a capire se un fotografo è nato col digitale o se viene dal rullino? Il primo, dopo lo scatto, controlla il display. Noi “vecchi” ragioniamo ancora come una volta».

E cosa c’era “una volta? «Ho cominciato da ragazzino – ci racconta, commosso –. Franco Calandri mi fece vedere come si sviluppava una foto: mi portò nella “camera oscura”, prese un foglio di carta bianco, lo immerse in una bacinella con un liquido e ne venne fuori un’immagine. Rimasi folgorato: non avevo mai visto una cosa del genere. Io frequentavo una scuola professionale, non potevo farne una specializzata. La mia prima macchina era una “Praktika” MTL5, costava 195 mila lire. Poi ho iniziato a lavorare con Massimo di “Magic foto”, a cui serviva un aiuto per i matrimoni… io ho cominciato così».

Gli obiettivi erano… quelli che potevi avere. «Giravamo tutti con un 80mm e in 135mm. Chissà cosa avremmo risposto se ci avessero detto che avremmo visto in futuro dei 24-105. Ricordo quando è arrivato l’autofocus, e da un giorno all’altro potevi fare le foto agli sposi mentre si muovevano, dove e come volevano. Prima? Prima, a volte, si andava a fare le foto in Belvedere… e c’era la fila: tutte le coppie che si sposavano la stessa domenica, tutte sulla stessa panchina, una dopo l’altra».

Un mondo diverso in cui lui, senza fare classifiche, ammette semplicemente non riuscire più a rispecchiarsi: «Forse la differenza sta nel fatto che una volta, dovendo lavorare con molti più limiti, siamo diventati ossessionati. Ecco, ossessionati. Io ne ho fatto una malattia: avevo l’ansia, in ogni foto». Non chiedetegli “qual è la tua foto preferita?” perché vi manda a quel paese: «Tutte. Devi essere al servizio dell’immagine. Io mi sono innamorato di ogni persona e di ogni foto. C’è una frase, che senso spesso e che non mi è mai piaciuta: “questa foto sembra un quadro!” … se sembra un quadro, allora non è una foto. Noi non siamo “pittori”. Siamo scrittori: noi scriviamo la luce. Oggi vedo esaltare foto che una volta sarebbero state cestinate».

Trent’anni di lavoro: «Ho fatto foto ai matrimoni… dei figli degli sposi che ho fotografato trent’anni prima». Una cosa particolare di Guido è che ha lavorato in qualsiasi contesto possibile: «Matrimoni, cresime, battesimi... migliaia. Ed era complicato, con gli scatti contati. Non potevi permetterti di buttare via metà delle foto. Poi ho lavorato nella pubblicità, con Gilberto Golinelli che non dimenticherò mai: cataloghi di prodotti, magari 80 o 100 pezzi. Ogni scatto doveva essere perfettamente a fuoco in ogni dettaglio: una cosa difficilissima da tirare fuori, a trovare la luce giusta per far uscire con quel diaframma quello che volevi. Anzi: quello che serviva. E pensare, poi, che lo sviluppo poteva non far rendere il colore perfetto, perché magari gli acidi erano troppo caldi».

E i reportage: «Ho iniziato a scattare “in volo”. Ho fatto foto per restauri, per l’Università. Grandi eventi: aziendali o sportivi, i Giri d’Italia. Il festival del Fitness. Un mese di reportage in Afghanistan. Ho lavorato coi giornali, cercando sempre di fare tutto». Gli aneddoti si sprecano: «Pensa che per imparare a fotografare bene i fiori ho chiesto aiuto…. alle suore di Carassone. Avevano un vivaio magnifico, io mi sono piantato lì per settimane a scattare e studiare. In cambio, gli facevo le fototessere».

O il suo giubbetto rosso, dalle tasche apparentemente infinite: «Si gira con tre-quattro obiettivi, due flash… e i rullini nelle tasche. C’era un modello di rullini che aveva le stesse dimensioni di un tipo di cartucce. Un giorno, all’inizio di un evento, un collega mi chiese: “Guido, mi dai un rullino?” Si era sbagliato, aveva messo le mani in tasca convinto di avere i rullini… ed erano cartucce». Glie lo hai dato? «Sì. Ho sempre detto “sì” a tutti… i “no” li ho detti solo a me stesso».

Continuerai, gli chiedo, a scattare per te stesso? «Assolutamente no. Non l’ho mai fatto, mai. Io non scatto fotografie per me. Oggi, se penso a scattare una foto… a “scriverla”… provo addirittura dolore».

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