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25 Ottobre 2025 - 13:31
Né con Netanyahu, né con Hamas. Dalla parte della Pace: una e sola. Per tutti. Rana ed Eszter hanno una storia di condivisione che va al di là degli schieramenti: mentre il mondo si divide fra chi “parteggia” per una o per l’altra parte, loro stanno cercando di dire: smettetela. E parliamo di pace. «Si deve smettere di pensare col concetto del "o noi, o loro" e si deve iniziare a pensare in termini di "noi con loro"»
E anche se gli estremisti di entrambe le parti considerano il loro movimento come "un tradimento", loro continuano. Lo hanno fatto per due anni, sotto i missili a Gaza, davanti alle violenze perpetrate dai coloni in Cisgiordania, sia in Palestina che in Israele.
Eszter Koranyi è ebrea, nata in Ungheria, oggi vive in Israele ed è da anni impegnata a chiedere la fine dell’occupazione. Rana Salman è palestinese, originaria di Betlemme, viene da una famiglia rifugiata dalla Nakba del 1948.
Sono co-direttrici di “Combatants for Peace”, una organizzazione di israeliani e palestinesi che combattono l’occupazione e provano a praticare azioni di pace, dal 2006. Sono due protagoniste assolute in questo momento storico e sono oggi a Mondovì per il Premio Res Publica. La loro presenza consentirà di affrontare l’argomento che oggi è letteralmente al centro del mondo con una prospettiva più che mai diretta.
Le abbiamo intervistate

La loro è una storia che si incrocia grazie a un elemento comune: la voglia di conoscere “l’altra parte”.
Eszter è nata e cresciuta in Ungheria in una famiglia di ebrei sopravvissuti alla Shoah. All’età di 12 anni ha visitato per la prima volta Israele. Cresciuta, ha cominciato a interessarsi al conflitto: e ha deciso di “toccare con mano l’altra metà della storia”, iniziando a conoscere la Cisgiordania. «Quando ho deciso di trasferirmi lì – ha raccontato –, mi sono detta: se devi stare qui, cerca di essere parte della soluzione non del problema».
Rana, invece, vive da sempre a Betlemme e vede la guerra da quando era bambina: «Ricordo le restrizioni del 1993 – ha detto –. Conoscere un israeliano che non fosse un soldato o un colono è diventato quasi impossibile. Non mi sono, però, mai voluta rassegnare alla separazione. Nutrivo il forte desiderio di sapere com’era “l’altra parte”». Si sono poi conosciute in “Combatants for Peace”. E portano avanti l’Associazione, dai rispettivi Paesi, insieme.
Rana, Eszter, partiamo da qui: cosa ne pensate del piano steso da Donald Trump? Secondo voi funzionerà?
È un primo passo. Ogni “piano di Pace” che si promette di fermare lo spargimento di sangue è ben accetto, perché il primo obiettivo è fermare la guerra, salvare vite, fermare le uccisioni. Come ogni strategia, richiede degli step: deve seguirne un percorso nel segno del rispetto dei diritti umani. Al momento i palestinesi non sembrano essere molto rappresentati, sembra più una “imposizione” della comunità internazionale, ma abbiamo la speranza che tutti saranno inclusi, palestinesi e israeliani, perché questa pace riguarda tutti. Vediamo delle criticità, certo, ma è capitato molto di rado che le due parti si accordassero e ora sta avvenendo: il “cessate il fuoco” è avvenuto, il rilascio degli ostaggi è in corso. Ripetiamo che servono ancora molti passi affinché non si torni indietro.
Quali sono le sensazioni che avete sulle reazioni delle popolazioni a Gaza, nei territori occupati e in Cisgiordania? C’è speranza?
C’è una mescolanza di emozioni diverse. C’è gioia: per la fine dei bombardamenti, per le famiglie che sono riunite dopo tanto tempo, per il rilascio degli ostaggi. Ma c’è anche molto dolore: chi è tornato a casa ha trovato la propria casa distrutta o ha scoperto che la propria famiglia è stata uccisa, soprattutto chi viveva a Gaza. Dolore, traumi e paura da entrambe le parti, perché le vite perse sono state migliaia e migliaia. La sensazione è che si sia “su un filo di lana”, in cui tutto potrebbe nuovamente succedere in qualsiasi momento. E in Cisgiordania si temono ulteriori escalation di violenza, come del resto si sono verificate anche di recente, dopo lo stop: ci sono ancora tante restrizioni, controlli, i palestinesi sono di fatto richiusi. È difficile vivere così per le famiglie palestinesi. Abbiamo visto un’incrementi delle violenze in queste settimane: famiglie cacciate, oppresse.
Parlando della situazione nelle zone della Cisgiordania colonizzate, voi spesso parlate di “una guerra silenziosa”: cosa intendete con questo termine?
È silenziosa perché non ha l’attenzione mediatica che c’è su Gaza, dove ci sono i bombardamenti: è comprensibile che l’attenzione del mondo sia su Gaza, ma allo stesso tempo le violenze stanno continuando e questo avviene nel silenzio. Ci sono 40 mila famiglie cacciate, oppresse dai coloni. L’esercito israeliano ha preso il controllo delle loro terre lasciandoli senza casa, senza un luogo dove vivere o lavorare: questo significa anche un enorme danno per la loro economia, dopo due anni di guerra. Dopo il 7 ottobre 2023 tutti i permessi dei palestinesi sono stati azzerati.
Noi vediamo spesso situazioni di questo tipo, attraverso gli attivisti della nostra Associazione: i palestinesi vengono derubati di tutto, persino del cibo e dell’acqua, lasciati senza nulla, vengono picchiati. La strategia è quella di tenerli costantemente in pericolo di vita. E questo avviene in ogni zona, il controllo e l’oppressione sono costanti. La maggior parte delle zone agricole o di allevatori sono il controllo israeliano, dell’esercito: l’esercito non garantisce nessun equilibrio, protegge solamente i coloni. Lo abbiamo visto coi nostri occhi.
Come se si stesse cercando di “normalizzare” la condizione di guerra?
Sì: si vuole mantenere uno “stato di paura” continuo sotto la minaccia delle armi e dei controlli. Il controllo è tale che, attraverso i blocchi, l’esercito può rinchiudere il 90% dei palestinesi in poche ore. Un assedio vero e proprio. I nostri attivisti fanno il possibile per tenere accesi i riflettori su questo tema, ma in Israele c’è chi ignora totalmente questo che sta avvenendo.

La vostra associazione promuove la Pace al di là delle ragioni di una parte o dell’altra: voi siete “nel mezzo”, con attivisti palestinesi e israeliani che lavorano assieme. Cosa ne pensano le due parti, del vostro lavoro? Di chi opera per la Pace senza stare di qua o di là?
È una sfida enorme, sia per quelli di noi che vengono dalla Palestina che da Israele. Noi cerchiamo di promuovere una soluzione che vada al di là. In Palestina c’è tanta voglia di unirsi ai movimenti non violenti, ma sfortunatamente c’è anche tanta paura di unirsi a noi: tante persone non si vogliono esporre apertamente. Ma c’è tanto interesse per le nostre attività, le nostre manifestazioni. Purtroppo l’occupazione, i bombardamenti e le violenze mettono in ombra il nostro movimento. Anche in Israele ci sono migliaia di persone che si interessano al nostro lavoro: ma dopo gli eventi del 7 ottobre non abbiamo più potuto organizzare grandi eventi all’aperto come in passato. Ciò che facciamo viene seguito da decine di migliaia di persone. Ovviamente sappiamo che il mainstream ci dipinge come “dei traditori”. C'è chi dice che quanto diciamo noi, ovvero che ci sono palestinesi che vogliono davvero la pace, sia una falsità.

Cosa pensate della posizione del governo italiano sulla questione di Gaza? Qualcuno ha detto che sia una posizione poco chiara, non abbastanza esplicita…
In realtà, la posizione della premier Giorgia Meloni ci ha sorprese. Il governo italiano è sempre stato percepito come "vicino" a Netanyahu. Quando è stata eletta, avevamo paura che avrebbe completamente supportato gli attacchi di Israele a Gaza. Invece non è stato così: è vero che gli accordi non sono chiari, ma abbiamo anche visto che in Italia c’è un forte movimento, con dimostrazioni nelle piazze, a supporto della pace. La posizione di Meloni è pragmatica. Ci sono certamente altri passi da fare, o che potevano essere fatti, come il riconoscimento ufficiale dello Stato di Palestina, il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, le sanzioni: ma sono step successivi.
Avete citato le manifestazioni in Italia. Sembrano esserci due prospettive, nei movimenti per Gaza: da un lato quella più radicale, degli slogan “Palestina libera dal fiume al mare”; dall’altra quella di chi parla di “due popoli e due Stati”. La domanda che molti si pongono è: quale può essere la soluzione? Si può sperare in un mantenimento della pace vera?
Sì, questo è un tema importante. I primi movimento, in Italia e in Europa, erano per noi molto incoraggianti. Ma allo stesso tempo noi non vogliamo alcuna “polarizzazione”: essere “pro Palestina” o “pro Israele” non porta alla pace ma alla divisione. La polarizzazione non aiuta chi vive a Gaza o in Cisgiordania, non aiuta chi subisce le violenze, non aiuta il nostro lavoro e soprattutto non aiuta nessuno dei due popoli: perché tutti e due viviamo su quella terra. Non può e non deve più essere un “noi o loro”, ma deve iniziare a essere un “noi con loro”. L’unica soluzione è che entrambi i popoli restino su questa terra, convivendo, considerandola la casa di entrambi, vivendo in dignità, giustizia, uguaglianza, rispetto per i diritti umani. E pace. Certo, c’è tantissimo lavoro da fare, le visioni sono ancora distanti… ma noi lavoriamo per creare un futuro che abbia questa visione. L’unica soluzione che può funzionare è quella che garantisce per entrambi dignità e uguaglianza.
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