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26 Agosto 2025 - 12:36
Ma a che cosa serve la musica? Perché non possiamo farne a meno?
A questa domanda ha risposto perfettamente il concerto conclusivo del 58° Festival dei Saraceni, tenutosi il 22 agosto scorso nella prestigiosa cornice della Reggia di Valcasotto davanti a un foltissimo pubblico: il suo programma “enciclopedico”, infatti, compendiava tutti gli aspetti della produzione musicale di Alessandro Scarlatti (musica strumentale, cantate sacre e profane) e tutti gli “usi” della musica tout court: in funzione “subordinata”, per accompagnare la voce umana nelle più svariate occasioni di canto, e nella forma assoluta di solo suono, nella sua natura asemantica, di puro “gioco” di frequenze e ritmi.
Nato a Palermo nel 1660, ma trasferitosi giovanissimo a Roma, Scarlatti creò il suo stile a Napoli, forgiando il cosiddetto melodramma napoletano. Ma è nelle cantate che Alessandro fu insuperabile, e fu preso a modello sia da Händel che da Bach. A Napoli morirà nel 1725, e con questo concerto l’Academia Montis Regalis ha voluto appunto celebrare il tricentenario della morte. L’orchestra barocca dell’Academia, arricchita dal flauto di Cecilia Massenzana, era diretta dal clavicembalista Claudio Astronio, un musicista poliedrico; la voce era quella, morbida e potente, del soprano Gabriella Costa.
Il concerto è stato aperto da un brano strumentale, il Concerto Grosso in do minore, con un solenne adagio seguito da un concitato dialogo tra flauto, viola e violoncello a cui i violini aggiungevano pennellate cupe: la conclusione è stata affidata alle movenze di danza leggera di un andante moderato. Poi il programma presentava due sezioni simmetriche, comprendenti ciascuna due brani cantati inframmezzati da uno strumentale: nella prima sezione si trattava del Concerto in re maggiore per flauto, archi e continuo. Nei primi due movimenti gli interventi del flauto sono perentori, ora interrogativi ora assertivi: tutto converge sulla fuga centrale, dalla mobile architettura melodiosa, mentre il delicato dialogo tra solista e tutti del largo prelude allo scanzonato allegro finale.
Nel secondo blocco fungeva da intermezzo strumentale il Concerto Grosso in fa minore, un perfetto esempio di poetica barocca quanto a capacità di sorprendere e stupire. Introdotto da un grave fluttuante e avvolgente, con le viole a bordone, continua con un allegro fugato e maestoso, mentre il largo è il trionfo della musica pura, della musica “in sé”: ma la vera sorpresa è la stupefacente allemande con cui finisce.
Altrettanto stupefacenti per timbro e ritmo mosso e vario le battute, che si dilatano poi in una vera e propria ouverture, con cui l’orchestra introduce la cantata L’Olimpia. Qui gli strumenti dialogano con la voce umana coralmente o singolarmente, in veri e propri duetti, sottolineando potentemente gli “affetti” del personaggio di Olimpia (dal canto X dell’Orlando furioso) che al risveglio scopre di essere stata abbandonata dall’amante Bireno e passa dalla disperazione più profonda allo sdegno alla freddezza. Violenta e drammatica la musica, intensa l’interpretazione del soprano.
Analogo il tema della precedente cantata, L’Arianna, ma questa volta viene narrato anche l’antefatto, alternando arie e recitativi: energici colpi dei bassi dilatano lo spazio sonoro in cui si incastona il primo recitativo, che ricorda la fuga di Arianna e Teseo da Creta. Nel secondo recitativo Arianna ricorda le carezze con cui Teseo l’ha addormentata per poter fuggire, infine esplode in lei la rabbia per l’abbandono, che la musica sottolinea con una tempesta di scale discendenti. Nel quarto recitativo il suo stato d’animo muta: prevalgono senso di fallimento, pentimento, desiderio di morte espressi dagli strazianti lamenti dei violini e dalle voci gravi dei violoncelli. Ma alla fine sull’isola arriva il dio Bacco a salvarla: il finale è sospeso e aperto, resta solo la voce del soprano nel silenzio dell’orchestra.
Nella prima sezione a dialogare con il soprano nella cantata Ardo, è ver è il flauto, i cui interventi commentano i singoli versi cantati e per così dire li equilibrano. In un intreccio di sublime armonia con effetti d’eco, che smorza e attutisce, la musica riscatta un testo di per sé retorico e convenzionale.
Tra le cantate sacre è stata proposta la Salve regina, una versione severa e imponente del noto inno liturgico, e ancora una volta Scarlatti – grazie ai suoi bravissimi interpreti – riesce a spiazzare l’ascoltatore, da quel sommo autore barocco che è.
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