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24 Luglio 2017 - 06:45
Calypte anna
Quanto spesso batte le ali il portento
di natura calando ogni mattina alla fontana
di pietre riprodotte e carezzate di muschio
e ignaro prendendole per vere
nell’ombra indecisa della pergola:
solo i pensieri più guizzanti e selettivi
frullano piumati davanti al raggio vago
dello sguardo diretto, per cambiare, verso l’altro.
È il dono, tra i molti, del mattino
sul lembo occidentale del tragitto,
la sorpresa sperata che si fa realtà
quando i passi indecisi si fermano,
per forza calma ma decisa di marea,
alla vista della schiuma.
Velella velella
Migliaia di vele trasparenti sono sparse
sulla sabbia lappata dall’oceano
o disposte in file ordinate come dalla mano
di bambino divino e sfuggente, troppo piccolo
o forse gigantesco al punto da negare la visione
completa e razionale, l’osservazione in sé conclusa
di chi senza sapere assiste.
Nelle pareti della mareggiata che le ha consegnate
alle nostre attenzioni impreparate
come immensa flotta di navigatori di acque più calde,
discendenti innocui di eleganti e letali caravelle,
appaiono come occhi oblunghi e spalancati su di noi,
forse a ricambiare la sorpresa ammutolita
di una specie all’incontro con un’altra, sconosciuta:
perché una distesa tanto capricciosa di corpi
non sempre irreprensibili per dimensioni, curve,
proporzioni? perché la diversità delle posture,
la varietà dei moti e delle pause, il disordine
di un’assenza apparente di scopo e missione?
Sembrano dire, sgranando le iridi violacee:
noi che siamo qui per un capriccio di maree
e temperature sappiamo che qualunque sia
il nostro viaggio, in sé trova senso.
Sembrano chiedere: ma voi?
Avio otus
Ha un metro di apertura alare e ne misura
mezzo nei casi segnalati più notevoli,
ma il gufo che ci siamo visti passare
davanti agli occhi carezzati dalla brezza scura
mossa dal suo volo pareva disprezzare per natura
ogni vano afflato di misura, allungando l’ombra
del suo corpo nelle ombre della sera spezzata
dalla sua comparsa e subito scomparsa,
linea retta di volo dall’occidente
vuoto di sfere alla luna orientale,
rotta offerta in fruscio al nostro bisogno
immediato di ragioni: perché un volo così basso?
Perché rasente la scarpata che divide
dal resto ciò che è nostro?
Il suo passaggio, lacerando il quadro orizzontale
che davanti si offriva e uscendone
senza concessioni alla platea,
spezzava la nostra propensione al retroscena.
Da Stefano Bortolussi I labili confini (Interno Poesia, 2016).
Cos’è per te la musica della poesia?
La musica è la dimensione prima della (mia) poesia, detto senza mezzi termini. Che sia quella del verso singolo, della strofa o dell’intero componimento, mi ritrovo sempre a cercarla, sia nelle prime stesure che nelle infinite riscritture, alla ricerca di una — come definirla? — cantabilità distesa e direi quasi galoppante, molto lontana dalle spezzature e dalle afonie di certa avanguardia che, vecchia ormai più di un secolo, continua peraltro a trovare epigoni. Niente in contrario, intendiamoci: in poesia tutto è concesso e, oserei dire, tutto è dovuto; ma la mia strada è un’altra, e più che di frenate, sterzate e retromarce è fatta di lunghi rettilinei e curve morbide, con un tornante o due a mutare di quanto in quando la prospettiva e spaiare le carte.
La lettura (ad alta voce) del testo poetico: qual è secondo te il rapporto della voce col testo e come consideri il tuo “modo” di leggere?
Uno dei punti fermi più frequentati da chi scrive o parla di poesia è quello che chiama in causa la cosiddetta voce dell’autore. Se questo vale in sede critica, a maggior ragione è una condizione fondamentale di chi la poesia la scrive in prima persona. Parlare la poesia è una pratica fondante, direi quasi una fase vera e propria della scrittura — perché parlandola, il poeta la fa parlare. Questo naturalmente vale anche per la lettura, perché con un’arte metamorfica e cangiante come la poesia leggere è quasi un creare a posteriori, un ri/scrivere il verso già scritto secondo lo stato d’animo, la sensibilità e gli strumenti culturali di colui o colei che legge. Borbottare, recitare, canticchiare, declamare il verso lo apre a sempre nuove visioni e (se proprio necessario) interpretazioni.
Come definiresti o descriveresti la poesia e il suo rapporto con le altre arti?
Io vedo e vivo la poesia come una sorta di continuo, reiterato big bang, come l’origine e il motore primo di ogni scambio creativo col mondo; ma devo ammettere che in questa visione potrebbe esserci una dose abbondante di autoreferenzialità, poiché Madre Natura ha pensato bene di concedermi il dono della parola scritta (fino a che punto abbia agito bene non sta a me dirlo). Un musicista, per esempio, potrebbe dire la stessa cosa della musica, e non mi sentirei certo di biasimarlo per questo (o, visto che siamo in rete, di insultarlo). Perché, allora, non relativizzare il tutto, proponendo una visione della poesia come uno degli organi vitali, così come la musica, le arti visive, il teatro, la narrativa, il cinema, alla sopravvivenza di quell’organismo delicatissimo e magico che è l’universo? Il cuore pulsante, magari?
Oltre che poeta sei anche traduttore dall’inglese: d’altra parte i grandi poeti sono sempre stati anche traduttori. Quanto influisce un rapporto a stretto contatto costante con altre lingue nella tua scrittura?
Ti ringrazio per il sillogismo, che il lettore generoso potrà portare a compimento in privato. Scherzi a parte, la traduzione e il rapporto di osmosi con l’altra lingua (qualunque essa sia) è stato e continua a essere fondamentale per la mia poesia — proprio per quello scarto che la traduzione ti insegna molto presto ad accettare, e che è quello tra progetto e risultato. Chiunque vorrebbe fare la traduzione perfetta, ma presto scopri che è ontologicamente impossibile. Alla stessa stregua, quante volte capita al poeta di partire con un’idea e ritrovarsi con un verso, una strofa, una poesia che la tradiscono? Il segreto è che in questo tradimento ci siano due cose: la pepita dell’intenzione originaria e il germe di un qualcosa di nuovo, e forse di migliore.
Presente, sempre, nei tuoi testi è la realtà americana, dove appaiono animali – quasi in un bestiario che emerge dai versi. Un poeta che si “sdoppia” tra la lingua italiana e la California, con i suoi spazi, i suoi suoni. Cos’è per te la tua “patria poetica”?
La mia patria poetica è la sua stessa inesistenza. Nel mio vivere scisso tra Italia e California ho trovato, ormai da tempo, la ragione d’essere della mia poesia. Un breve ciclo di inediti recenti si intitola non a caso “Esilienze”, termine coniato da me medesimo con la fusione di “resilienza” (che adesso va molto di moda) ed “esilio”. Il mio è un costante, elastico esilio mentale, che mi porta a vedere le mie due terre (quella in cui sono nato e quella d’elezione) nei loro aspetti, come dire, mitopoietici. E così la California, con il suo universo naturale ma anche culturale e di costume (Hollywood e dintorni) si trasforma in un mondo altro, in cui mi è possibile vedere una splendida surfista appena emersa dalle acque come una reincarnazione di Afrodite, o celebrare la contiguità del regno animale (mia suocera che incrocia un puma tornando a casa dal lavoro…) come un’appassionante invasione panteistica, una ierofania che chiede solo di essere cantata. E così torniamo dritti alla prima domanda…
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