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19 Ottobre 2025 - 10:23
San Donato patrono di Mondovì e della cattedrale
Domenica 19 ottobre (ore 15,30) in Cattedrale a Mondovì Piazza per la riapertura della chiesa, dopo i lavori di adeguamento liturgico del presbiterio: all’interno della celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo mons. Egidio Miragoli ci saranno momenti significativi, in particolare la consacrazione dell’altare e la benedizione della nuova cattedra episcopale e dell’ambone.
Ma qual è la storia della Cattedrale di Mondovì? Anzi, le storie. «Da quando, nel 1388, divenne sede di Diocesi, Mondovì ha avuto una quarantina di vescovi e quattro successive chiese cattedrali – spiega il prof. Ernesto Billò –. Il primo Duomo trovò sede sul colle più alto, nella pre-esistente chiesa gotica di san Donato posta nel terziere di Vico. Ma fu abbattuta sul finir del Quattrocento per far posto ad un Duomo più grande, eretto in uno stile prossimo al Rinascimento e al coevo Duomo di Torino. Lo volle il vescovo Romagnano e lo consacrò il suo successore Fieschi nel 1514. Durò poco più di mezzo secolo perché il duca di Savoja, Emanuele Filiberto lo trasformò nel 1573 in Cittadella fortificata per tener d'occhio di lassù le vie verso la Liguria e, soprattutto, i poco affidabili monregalesi.
Da quella seconda cattedrale sconsacrata fu trasferito tutto il possibile nella chiesa del convento dei Francescani Minori: campane, vetrate, cattedra episcopale, banchi, icone, battistero, balaustra: soprattutto il bell'altare scolpito da Lorenzo Sormani di Como nel 1517 e le eleganti lesene murate nel cortile e tuttora visibili.
Quella grande chiesa francescana aveva cinque navate gotiche con molte cappelle e altari. Divenendo terza cattedrale, determinò una girandola d'altri spostamenti; e il cuore della Diocesi ne risultò più organicamente definito: di rimpetto al Duomo, il Vescovado, l'oratorio e l'ospedale di Santa Croce, il primo nucleo del Seminario, il Monte di Pietà...».
«Nel 1743 quella grande chiesa gotica, lontana ormai dai gusti e dalle esigenze nuove, fu però abbattuta per dare inizio, sullo stesso sito, alla costruzione del Duomo attuale. Lo progettò Francesco Gallo, geniale architetto nativo di Piazza che "con equilibrio e misurato decoro formale amava portare valenze classiche entro il barocco", come disse Nino Carboneri. Fu questa l'ultima opera del Gallo, non più compiuta da lui, mancato nel 1750. Un'opera diversa da tutte le altre sue: con interno a tre navate e non a navata unica, con facciata in arenaria non più in mattoni, e con maestosità confacente ad una cattedrale.
Dopo il 1750 sorsero incertezze tra i continuatori che apportarono modifiche specie all'altezza delle volte, alle finestre, al presbiterio, anche se Benedetto Alfieri, richiesto di un intervento, non esitò: "Non esame, bensì ammirazione meritano le opere del celebre architetto Gallo". Il Nicolis di Robilant aggiunse, in capo ad una navata, l'elaborata cappella del Suffragio; sull'altro lato si completò la vasta cappella del Sacramento. E tutto l'interno restò per un secolo senza dipinti, con pareti e stucchi solo intonacati. Al Gallo sarebbero piaciuti così, come rimasero a lungo nel san Filippo di Breo: con linee e strutture ben in evidenza. Però, passata la bufera napoleonica e iniziata l'era della Restaurazione e del primo Romanticismo, i gusti mutarono: e più d'uno cominciò a ritenere quell'interno troppo povero ed oscuro. "Un budellone", l'aveva addirittura già bollato l'abate Beccaria, nota linguaccia oltre che famoso fisico. Si avanzarono allora ipotesi e profferte di teorici e di artisti a cui il vescovo Buglione di Monale e poi il suo grintoso successore Tommaso Ghilardi prestarono orecchio in un clima di riaffermazione del ruolo della Chiesa e di rilancio del culto mariano».
«Artisti di formazione accademica, su suggerimento di una commissione di canonici, coprirono allora ogni centimetro di quelle volte con dipinti e decori ottocenteschi: una ridondante ricchezza decorativa, una profusione di ori, di scene e figure di profeti, santi, angeli in gloria... Si ricorse all'esperienza di Paolo Emilio Morgari per il Martirio di San Donato nella calotta absidale e a quelle di Luigi Hartman (di origini protestanti) per la Gloria di Pio V nel catino centrale, oltre che per i misteri di Maria raffigurati tra il cornicione e le finestre in un monocromo verdastro che imita il bronzo.
Tanti altri gli artisti di fama. Francesco Gonin, noto illustratore dei Promessi Sposi, dipinse sulla volta a botte del coro la Natività di Maria; Andrea Vinaj di Pianvignale, benché simpatizzante per Garibaldi e la massoneria, popolò di sessanta figure adoranti l'Incoronazione di Maria nel catino del presbiterio, aggiunse quattro profeti nei pennacchi, più altre cose nelle cappelle e la tela della "Coena Domini". Il Ghilardi chiamò pure pure l'ebreo Gioachino Levi di Busseto, per Santa Cecilia e i santi locali Bernolfo ed Evasio. Con i pittori di figura collaborarono stuccatori, ornatisti, doratori; e via via altre opere di pittura e scultura arricchirono il Duomo, in aggiunta a tele precedenti di Taricco, Mayer, Bortoloni, Biella e ad un raffinato Crocefisso del Giudici, 1793. Dalla Certosa di Casotto pervennero stalli di quel coro ligneo completati dal Roasio, autore anche dell'arredo d'altare. A sinistra dell'ingresso, il Battesimo di Gesù del Quadrone (sue anche le statue della Fede, della Carità e di San Donato sulla facciata esterna). In alto, l'organo del 1822, opera del Serassi modificata dai Vegezzi Bossi. Nelle sacrestie e nell'aula capitolare altri reperti e dipinti di notevole interesse. Ora l'inaugurazione di nuovi interventi in aggiunta ad altri anche recenti (tra cui, importante, quello del 2015)».
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